(Christian Speranza) … o forse sì. C’entra nel senso che è tedesco; e si sa che per tutti i tedeschi, l’origine della musica è Bach. Ovvero l’autore di quel Concerto nach Italienischen Gusto che mira a riprodurre sulla sola tastiera i contrasti fra tutti e solo tipici del concerto all’italiana. Ma quello che per Bach era solo un esperimento per appropriarsi della sintassi di un Corelli o di un Vivaldi, avrebbe assunto ben presto forma e costume di moda, e i musicisti d’oltralpe si sarebbero fatti “ispirare” da suoni e colori del Belpaese in maniera molto più ampia.

Ne è un esempio il concerto del 21 maggio 2024 al Teatro Regio di Torino. Ad esclusione dell’Octagon di Philip Glass, il programma ripropone la scaletta di quello del gennaio scorso al Lingotto, con Pinchas Steinberg al posto di Riccardo Muti e l’Orchestra del Regio al posto della Chicago Symphony.

Si parte con la Sinfonia nº4 in la maggiore Op.90 di Felix Mendelssohn-Bartholdy, il cui soprannome di “Italiana” ben spiega la sua nascita. Il grand tour che ogni uomo di cultura doveva compiere tra Sette e Ottocento passava necessariamente dall’Italia. Il giovane Felix non fu da meno, e nel biennio 1830-31 fece tappa in molte città dello Stivale. Prendendo intanto appunti per una sinfonia che, classificata come quarta, fu in realtà la terza in ordine di composizione. L’”italianità” traspare dalla freschezza dell’inventiva tematica, soprattutto del primo e quarto movimento, con esplicita allusione, in quest’ultimo, alla tarantella, pur se in un inconsueto 4/4. Secondo e terzo paiono invece concedersi un attimo di respiro, più meditativo il secondo, più disteso il terzo.

Di questa freschezza, tuttavia, Steinberg trattiene molto poco. I tempi riposano in seno a metronomi consueti, ma sembra mancare quell’effervescenza, quell’esprit de jeunesse che pervade la partitura. Le ragioni vanno ricercate, credo, in tre motivi: il primo, la scelta direttoriale – sicuramente interessante perché controcorrente e che a conti fatti permette di evidenziare particolari dell’orchestrazione di solito passati sotto silenzio (primo movimento), a scapito dello scatto ritmico ma a beneficio dell’afflato melodico – certo la condotta un po’ “ingessata”, soprattutto dell’Andante con moto, non ha aiutato, forse più adatta al più “processionale” omonimo della “Grande” di Schubert, col quale ha una lontana affinità in un accennato ritmo di marcia. Il secondo, l’orchestra sovradimensionata, che (s)bilancia i fiati “a due” con ben “tredici primi” (gergale per tredici violini primi, undici secondi, nove viole, sette violoncelli e cinque contrabbassi): una sezione d’archi di tutto rispetto, che rimane invariata per il secondo pezzo, ben più massiccio. È chiaro che un’orchestra di queste proporzioni non risponde ai comandi come un ensemble cameristico. Terzo, il concerto cade in mezzo alle recite del Fliegende Holländer, le cui scene non son state smontate per il concerto e alla cui domanda tecnica sono giustamente riservate le energie migliori, oltretutto diretto da un’altra bacchetta. Sorprendentemente, il Saltarello conclusivo affronta le rapinose terzine con inaspettata vitalità, direi quasi con una punta di drammaticità, che, se pur non riesce a controbilanciare l’impressione dei primi tre movimenti, conclude la Sinfonia all’insegna del brio.

 Non che sia colpa dell’orchestra, intendiamoci: gli archi sono belli coesi, morbidi i legni, leggermente sbavati i corni ma nulla di grave. Piuttosto, è l’interpretazione a non convincere del tutto. Ma, se questo è vero per l’”Italiana”, l’impressione è ribaltata con Aus Italien Op.16 di Richard Strauss, nella seconda parte del concerto.

  Anch’essa composizione giovanile – Strauss la scrisse a ventidue anni, gli stessi di Mendelssohn ai tempi dell’”Italiana” –, anch’essa nata dalle impressioni del suo primo viaggio in Italia, per dirla con Goethe. Mentre in area viennese Brahms e Bruckner si davano battaglia a suon di titani sinfonici, il giovane Strauss partoriva non proprio una sinfonia, ma una “fantasia sinfonica” ispirata a paesaggi e atmosfere italiane, preludio ai grandi poemi sinfonici della maturità.

Steinberg evoca tutta la magia della partitura, facendo leva sulla fascinazione timbrica prima che melodica. Il suono è denso, turgido, e passa dal sostenuto Andante di Auf der Campagna (Nella campagna), al tronfio e compiaciuto Allegro molto e con brio di In Rom’s Ruinen (Tra le rovine di Roma), che rievoca i fasti della Roma imperiale, più che la decadenza dei resti architettonici. La direzione è qui lussureggiante, i piani sonori plasticamente sbalzati. Di nuovo il discorso tende a perdere tensione in Am Strande von Sorrent (Sulla spiaggia di Sorrento), dove tempi e tenuta si fanno un poco più geschleppt. Ma basta poco per terminare con la giusta vitalità, stavolta sì, del Neapolitanischer Volksleben (Vita popolare napoletana): il tema del Funiculì funiculà di Luigi Denza, all’epoca tormentone appena uscito (1880), è ben più che accennato – lo citerà anche Casella nella sua rapsodia Italia Op.11, del 1909 – e sicuramente costituisce il motivo più noto di curiosità, non certo l’unica attrattiva: perché anche qui il tour de force finale si fa galvanizzante joie de vivre, senza toccare dinamismi effrenati ma conservando sempre una certa eleganza di fondo.

Gli applausi a orchestra e direttore da parte di un Regio ahimè poco gremito testimoniano gradimento e accoglienza. Steinberg, poi è di casa da anni qui al Regio, e l’intesa con l’orchestra è ottima. Per questo aspettiamo con gioia la sua salita sul podio col titolo che a giugno concluderà la stagione: Il trittico di Puccini. Non perdetelo!