(Christian Speranza) Due austriaci al Regio Gli applausi risuonati per il bivalve semiaperto del Mollino testimoniano di un indice di gradimento molto alto da parte del pubblico che ha accolto con calore sia la prestazione dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino, sia la direzione di Lü Jiā, impegnati nel penultimo concerto della stagione, sabato 17 maggio 2025, denominato “Eleganza”. In programma la Sinfonia nº38 di Wolfgang Amadeus Mozart, detta “Praga”, e la Sesta Sinfonia di Anton Bruckner.

L’attuale Direttore artistico del National Centre for the Performing Arts (NCPA) e Direttore musicale della China NCPA Orchesta Lü Jiā sale sul podio dell’Orchestra del Regio dimostrando idee ferme e una salda concezione di ciò che esige dagli orchestrali: snellezza, pochi indugi e pulizia di suono. Snellezza che lo porta a eliminare sistematicamente tutti i ritornelli della “Praga”, in favore di un discorso che fa suoi un dinamismo gagliardo ma non corrivo, che sa prendersi il suo tempo laddove occorra. Si evidenzia così un Adagio introduttivo comodo e maestoso, seguito da un Allegro teso e ben sostenuto ma mai affrettato o affannoso, a parte rari momenti: tendenze riprese anche nel Presto conclusivo, quasi travolto nell’incalzo dei sincopati che sospingono il discorso melodico. Li separa l’oasi dell’Andante, che, a dispetto del cullante tempo di 6/8, non allenta se non di poco la vividezza del disegno direttoriale di fondo, anzi: sotto la bacchetta di Jiā, a spiccare sono i momenti di chiaroscuro in cui, come tipico di tante pagine mozartiane, fa capolino una fugace inquietudine, subito lavata via dalla compostezza del Classicismo viennese.

La coesione del disegno direttoriale porta Jiā a conferire unitarietà anche a un’opera per sua natura più dispersiva come la Sesta, dove, non potendo ricorrere a tagli od omissioni di ritornelli , nondimeno non fa trasparire la “pesantezza” di cui tante volte si bolla la musica bruckneriana. Intendiamoci, è un mastodonte di un’ora, la Sesta, massicciamente strumentata – anche se non esula dalle dimensioni d’un’orchestra tardoromantica standard – e ad orecchie non avvezze la sua sintassi può sembrare caotica, farraginosa, persino un po’ allucinata. Ma è qui la bravura di Jiā: nel far assumere alla pagina la solidità d’un monolite, tale che, a fine serata, almeno a giudizio di chi scrive, la durée bergsoniana è parsa di molto inferiore al tempo effettivamente trascorso.

Anche perché i tempi staccati da Jiā non differiscono da quelli stabiliti dalla tradizione. Ma se tale calibrazione risulta efficace e l’Orchestra risponde bene ai comandi, in grazia di professionisti di prim’ordine che ricamano i soli con personalità e gusto – da segnalare almeno Federico Giarbella, primo flauto, Luigi Finetto, primo oboe, nel penetrante assolo dell’Adagio, e soprattutto Maria Elisa Aricò, primo corno –, con minime défaillance nel settore degli ottoni, non si ha del pari medesima efficacia nell’amalgama e nella distinzione delle famiglie di strumenti Si ha come l’impressione, talvolta, di una non riuscita fusione degli assiemi, dei pieni orchestrali, mentre ben fatti risultano gli afflati lirici degli archi, belli compatti, e i momenti ove il tessuto strumentale si fa sottile: le trasparenze e le dissolvenze della coda dell’Adagio, ad esempio, vero cacumine espressivo della Sinfonia, sono rese con impagabile levità, così come i delicatissimi pizzicati nel Trio dello Scherzo. Non che con questo si infanghi una performance degna di nota: anche perché le tre luminosissime conclusioni di primo, terzo e quarto movimento suonano esaltanti, e l’ultima trascina il pubblico, come si diceva, a plaudere con insospettata partecipazione. Bravi!