
(Alessandra Giorda) Con Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai il Teatro Regio di Torino ha inaugurato la Stagione 2025/26 nel segno della passione e del rischio artistico. Un titolo complesso, raro, che richiede equilibrio fra raffinatezza orchestrale e potenza drammatica, e che il teatro ha scelto di affrontare con una nuova produzione firmata da Andrea Bernard, sotto la bacchetta di Andrea Battistoni, da quest’anno direttore musicale del Regio.
Fin dalle prime battute si percepisce che il M° Battistoni dirigerà con il giusto piglio capace di restituire alla partitura la sua densità emotiva. L’Orchestra del Regio, un vanto ed in ottima forma, ha reso con precisione e slancio le trame sinfoniche di Zandonai, dove i colori wagneriani si fondono con l’eleganza verista e con un gusto tutto italiano per la melodia. Il gesto di Battistoni è stato sempre vigile e teatrale: asciutto nei momenti più intimi, espansivo nei grandi blocchi corali, curando minuziosamente il suono che ha permesso di non soffocare mai le voci.
Il Coro del Teatro Regio, preparato in maniera egregia da Ulisse Trabacchin, ha affrontato con compattezza e chiarezza d’accento le difficili pagine d’insieme, muovendosi tra atmosfere mistiche e tensioni belliche con notevole omogeneità.
La regia di Andrea Bernard costruisce un mondo sospeso tra sogno e memoria. Niente medioevo realistico: Francesca vive in una dimensione mentale, quasi una stanza bianca dell’anima, in cui amore e morte si confondono. La scena, di Alberto Beltrame è dominata da elementi mobili e da un uso simbolico della luce che diventa uno spazio psicologico più che fisico. Elena Beccaro firma i bellissimi costumi .
Bernard punta su un racconto interiore, in cui le figure del passato tornano come ombre o presenze inconsce. Alcune trovate visive, le controfigure infantili dei protagonisti, le scarpette rosse davanti al letto, il sangue che compare come segno e non come effetto, sono poetiche e coerenti con questa lettura.
Tuttavia, in certi passaggi, l’astrazione registica tende a smorzare l’urgenza drammatica del testo dannunziano, rischiando, forse, di allontanare lo spettatore dal conflitto reale, ma l’eleganza dell’impianto visivo e la fluidità delle transizioni restano indubbi punti di forza.
Sul piano interpretativo, la Francesca di Barno Ismatullaeva è una protagonista intensa e solida. La voce, di bel colore e notevole proiezione, attraversa la tessitura impervia del ruolo con sicurezza. Il soprano offre un ritratto sfaccettato, una Francesca consapevole, non solo vittima, ma donna capace di scegliere e di desiderare. Gli acuti sono luminosi, i pianissimi curati e l’emissione costante.
Roberto Alagna, nei panni di Paolo, sfoggia il suo carisma naturale ed una luce abbagliante. La voce spettacolare, il fraseggio colpisce e scolpisce il cuore dello spettatore. Il tenore francese sa dare alle parole una nobiltà malinconica che rende credibile l’amante condannato. La chimica tra i due protagonisti funziona e il loro duetto finale pieno di pathos intimo, sospeso, quasi sussurrato è tra i momenti più toccanti della serata.
George Gagnidze disegna un Gianciotto possente, più virile che crudele, con un timbro brunito e un fraseggio incisivo. Meno tratteggiato psicologicamente nella regia, il suo personaggio guadagna però in autorevolezza vocale e come sempre si conferma un eccellente baritono.
Matteo Mezzaro, è arrivato al pubblico dritto come una saetta portando in scena un Malatestino che offre un ritratto lucido e inquietante dal canto ben proiettato e duttile. Ha smesso in scena una recita sorprendente con la voce chiara e ben proiettata, la dizione limpida e la presenza scenica vigorosa gli consentono di restituire un personaggio di inquietante intensità. Nel suo canto si avverte il veleno sottile della gelosia e dell’ambizione frustrata, e la regia ne valorizza la componente più disturbante, senza mai cadere nella caricatura.
Nel duetto del terzo atto con Francesca, Silvia Beltrami dà a Smaragdi un rilievo sorprendente: la sua voce calda e pastosa avvolge quella della protagonista in un intreccio sonoro di rara morbidezza. Non è un semplice scambio di battute, ma un momento di verità sospesa, in cui la lealtà della serva si tinge di pietà e di presagio. Il mezzosoprano bolognese riesce a coniugare intensità e misura, con un fraseggio sempre chiaro e un’emissione controllata che nobilita il personaggio. La fusione delle due voci crea un momento di sospensione, dove la musica sembra respirare con loro.
L’intero cast secondario si è mosso con efficacia e partecipazione a conferma di un lavoro d’insieme accurato nei minimi particolari. Complimenti a Devid Cecconi come Ostasio ed a Valentina Boi la Samaritana.
Le quattro ancelle di Francesca sono ben assortite e di lusso come Valentina Mastrangelo Biancofiore, Albina Tonkikh è Garsenda e Martina Myskohlid Altichiara e Sofia Koberidze è Donatella. Plauso per il resto del cast.
La serata, accolta da un teatro gremito, ha registrato un entusiasmo sincero. Gli applausi finali calorosi e convinti hanno suggellato un’inaugurazione indimenticabile. Francesca da Rimini non è opera facile: richiede dedizione, visione e un equilibrio sottile tra raffinatezza e pathos. Il Regio ha dimostrato di voler osare, di preferire la complessità al facile consenso ed ha stravinto.
In tempi in cui i teatri tendono a rifugiarsi nel repertorio più rassicurante, questa apertura di stagione rappresenta un atto di fiducia nella forza della musica e nella curiosità del pubblico. Francesca da Rimini torna così a vivere non come reliquia del primo Novecento, ma come dramma ancora vivo, specchio di passioni eterne.
Recensione della recita del 10/10/2025