(Christian Speranza) Ce li aveva piantati in testa. E niente l’avrebbe fermato dal musicarli. Verdi, intendo. I due Foscari. L’Oberto, conte di San Bonifacio era andato piuttosto bene alla Scala, nel 1839. E l’anno dopo Merelli, l’impresario, gli dà da musicare Un giorno di regno, un’opera buffa. Disastro. Deciso ad appendere la penna al chiodo, viene convinto, ancora da Merelli, a riprovarci con Nabucco, nel 1842. Ed è il trionfo. Sulla scia di questo trionfo, seguono I Lombardi alla prima crociata nel 1843. Ma dopo quattro titoli alla Scala, Verdi voleva cambiare. E si rivolge alla Fenice. Niente di meglio che mettere in scena a Venezia un’opera che parla di dogi! I due Foscari, dall’omonima tragedia di Lord Byron, come diremmo oggi, “tratta da una storia vera” del 1457.

Sorpreso ad aver chiesto aiuto al Duca di Milano per rientrare in patria, Jacopo Foscari (tenore), figlio del doge Francesco (baritono), viene richiamato dall’esilio per essere giudicato dal Consiglio dei Dieci. Nulla può il doge, che pure è suo padre: le leggi lo incatenano. Nulla può sua moglie, la pur battagliera Lucrezia Contarini (soprano). Jacopo viene incarcerato, e dopo l’orribile visione del Conte di Carmagnola fatto decapitare da suo padre, sviene. Al risveglio, riceve la visita di padre e moglie, e quella un po’ meno gradita di Jacopo Loredano (basso), che lo crede responsabile della morte di due suoi parenti. Mentre ha luogo una festosa regata sul Canal Grande, il Consiglio gli comunica la sentenza: colpevole. La vita gli viene risparmiata, ma dovrà tornare in esilio, senza moglie e senza figli. E così, dopo aver dato l’addio alla famiglia, Jacopo salpa per Creta. Poco dopo, il senatore Barbarigo reca a Francesco una lettera che scagiona il figlio. La gioia di saperlo innocente, però, dura poco: Lucrezia irrompe annunciando che Jacopo è morto di crepacuore appena lasciata la laguna. Ma per i Dieci non è abbastanza e, plagiati da Loredano, impongono al vecchio doge di abdicare. Dapprima offeso, rifiuta; poi, costretto, non regge al colpo e muore anche lui.

Perfetto sulla carta. Ma i discendenti delle famiglie Loredano e Barbarigo, ancora vivi, avrebbero, come dire, preso un po’ male veder fare la figura dei cattivi ai loro antenati, proprio loro che affittavano un palco al primo ordine della Fenice fin dalla sua apertura. E così, Verdi e Francesco Maria Piave, nato a Murano e conosciuto proprio a Venezia in questa occasione, che sarebbe diventato il suo principale librettista, optano per Ernani, altro soggetto sul quale Peppino aveva messo gli occhi. Quanto ai Foscari, doveva ancora rispettare un contratto con Alessandro Lanari: e li scrive per il Teatro Argentina di Roma, dove debuttano il 3 novembre 1844.

A dispetto della rapidità con cui la scrive, la qualità della musica non ne soffre. A soffrirne è l’opera in sé: tratta da una pièce che faceva dei dialoghi il suo punto di forza, la sua drammaturgia funziona bene per essere letta, meno per essere rappresentata. C’è molta meno azione che nell’Ernani, per dire, e nell’insieme risulta un po’ statica. A distanza di tempo, lo stesso Verdi l’ha definita «un mortorio», nel senso di tragedia troppo cupa, con troppi morti. Eppure, quattro anni dopo, tornerà a Byron per scrivere Il corsaro. Ma questa è un’altra storia…