

Quatrini coniuga una solida preparazione accademica a una naturale sensibilità scenica mettendo sempre al centro della propria visione musicale il dialogo costante tra buca e palcoscenico. In occasione del suo debutto sul podio del Teatro dell’Opera di Roma, con L’italiana in Algeri di Rossini, l’intervista a seguire dove il direttore romano si racconta nel post Première.

Quali emozioni hai provato nell’affrontare L’italiana in Algeri, un titolo così brillante e complesso, per la prima volta al Teatro dell’Opera di Roma?
Professionalmente ho avvertito una duplice responsabilità: da un lato, l’onore profondo di debuttare con questo titolo in un teatro tra i più prestigiosi del panorama lirico italiano; dall’altro, la sfida affascinante di restituire tutta la vivacità, l’ironia e la sottile complessità teatrale che L’italiana in Algeri racchiude. Emotivamente la grande gioia di dirigere nella mia città di nascita per la prima volta. Bellissime sensazioni.
Descrivi brevemente cosa hanno fotografato i tuoi occhi alla Première dell’opera?
Un teatro gremito, molta emozione nel cast, grande attenzione e professionalità da parte di tutti. Più intimamente gli occhi felici di mia moglie e di alcune persone a me care mi hanno riempito di soddisfazione.

Quando si incontra per la prima volta un’orchestra, quali sono gli elementi che cerca di percepire e valorizzare fin dalle prime prove?
Beh si cerca subito di capire se la propria idea, creata a tavolino o da precedenti direzioni, possa davvero realizzarsi con il nuovo strumento a disposizione. Si cerca di individuare i punti di forza per valorizzarli e i punti deboli – se ce ne sono – per lavorarli. Ci si prendono le misure vicendevolmente, il direttore con l’orchestra e l’orchestra con il direttore. Un’orchestra non è un insieme di strumenti, ma un insieme di persone ognuna delle quali ha la propria visione, la propria storia, i propri gusti, la propria sensibilità. Un direttore deve convincere in brevissimo tempo di avere un’idea interpretativa seria e di saperla comunicare chiaramente, guadagnandosi la fiducia e la stima di chi suona con lui. Quando questo accade, da quel momento, l’orchestra suona per quel direttore abbandonandosi al fare musica insieme senza limiti. Non succede sempre purtroppo, ma se succede è stupendo.

L’italiana in Algeri è un’opera in cui tempi, dinamiche e dialogo tra buca e palcoscenico sono cruciali. Come ha costruito questo equilibrio con il cast e l’orchestra?
L’equilibrio tra buca e palcoscenico si realizza solo attraverso un ascolto attivo e multidirezionale. Non si tratta semplicemente di eseguire la propria linea vocale o strumentale, ma di inserirla consapevolmente in un tessuto sonoro e drammaturgico condiviso. È l’interdipendenza, non l’indipendenza, a generare il respiro teatrale. I tempi, tendenzialmente proiettati in avanti, non rispondono a un criterio metronomico, bensì alla necessità di restituire continuità narrativa e di alimentare il senso di urgenza scenica, soprattutto nei momenti di ‘caos organizzato’—come i concertati e i finali d’atto—dove l’apparente anarchia è in realtà una struttura ritmica e formale rigorosissima. L’obiettivo è un’organicità vitale, in cui ogni gesto musicale partecipa alla costruzione del discorso drammatico.

Rossini è un autore di straordinaria freschezza e ironia, ma anche di grande rigore tecnico. Qual è la sfida più grande nel dirigere L’italiana in Algeri?
La sfida più grande, nel dirigere L’italiana in Algeri, come in tutta l’opera rossiniana, è riuscire a tenere insieme leggerezza e profondità, gioco teatrale e architettura musicale. È un teatro che sembra ‘semplice’, che gioca con l’ironia, con il paradosso, con il nonsense, ma che in realtà richiede un coinvolgimento intellettuale profondo per coglierne davvero la complessità. Rossini costruisce tutto con un rigore quasi geometrico, come fosse un architetto prima ancora che un compositore: ogni elemento è calibrato, ogni voce incasellata in un meccanismo ritmico e formale di straordinaria precisione. E tuttavia, in questa chiarezza solo apparente, si nasconde un tratto distintivo: l’aleatorietà. Nessun altro compositore, forse, affida così tanto all’interprete e all’ascoltatore. Per me, dirigere Rossini significa partecipare a un gioco serissimo, in cui ogni battuta nasconde un doppio fondo, e ogni gesto richiede intelligenza, consapevolezza, ironia.
Sei riuscito a trasmettere al pubblico il messaggio che volevi?
Credo di sì, posso ritenermi soddisfatto.

C’è un’altra opera di Rossini che sogni di affrontare o un teatro nel quale ti piacerebbe particolarmente dirigere e magari ritornare in futuro al teatro della tua città?
Spero di tornare presto a Roma, perché la connessione artistica e umana che si è creata è stata davvero fortissima. Ci sono ancora molti teatri in cui non ho avuto occasione di dirigere e nei quali, naturalmente, mi piacerebbe debuttare. Tuttavia, sono in una fase della vita e della carriera in cui sento di poter dire che desidero lavorare solo dove ci siano le condizioni per fare bene il mio mestiere: con cura, dedizione e il tempo necessario. Collezionare nuove esperienze solo per il gusto di farlo mi interessa relativamente. Per quanto riguarda il repertorio rossiniano, direi che Guillaume Tell è l’opera che, più di ogni altra, vorrei avere il privilegio di dirigere.
Un commento sull’allestimento, a quanto pare molto amato, di Emanuele Luzzati?
L’allestimento di Luzzati è entrato nel cuore del pubblico perché riesce a trasformare L’italiana in Algeri in una favola teatrale senza tempo. Con i suoi colori vivaci, le scene stilizzate e quell’Oriente immaginario pieno di ironia, Luzzati restituisce perfettamente lo spirito leggero e surreale dell’opera. È un mondo poetico e giocoso che accompagna la musica di Rossini senza mai sovrastarla, parlando con semplicità e intelligenza tanto agli adulti quanto ai bambini.
Dei prossimi impegni qual è quello che non vedi l’ora si concretizzi?
Non uno in particolare. Il “prossimo impegno” è sempre quello che aspetto con più impazienza e curiosità. Quindi Tancredi fra un mese a Martina Franca.
Foto di copertina @Fabrizio Sansoni